Se non lui sionista, chi?
Pochi sanno che il capitano Enrico Levi, scomparso a Haifa il mese scorso, è l’eroe che si è maggiormente speso per organizzare dal punto di vista tecnico l’Alyià Beth dall’Italia. La sua avventurosa vita mi fu raccontata da lui stesso, il 17 marzo 2005, durante una mia visita nel suo appartamento al 13° piano di una elegante edificio in Rehov Hazaz, dal quale si godeva un’eccezionale vista sul porto di Haifa.
Nato a Cremona nel 1916, da giovanissimo fu preso dalla passione per il mare. Si iscrisse alla scuola nautica di Venezia, trascorrendo le sue vacanze estive come mozzo di nave; terminati gli studi primari, vinse un concorso per accedere alla nave-scuola Patria, un veliero di 5 alberi che veleggiava verso Capo Nord. Era l’unico cadetto ebreo della flotta navale italiana. Nel 1938, sbarcando da una nave del Lloyd Triestino, apprese che erano state emanate in Italia le leggi antiebraiche. Perse di colpo il lavoro e la possibilità di proseguire nella carriera che tanto lo affascinava. Si impegnò allora per l’ebraismo, lavorò per la Delasem con Valobra, Grosser e Raffaele Cantoni. Max Varadi gli affidò il compito di creare la hakscharà di San Marco a Orciano nel Chianti. Sua inoltre è la pratica realizzazione, per conto della casa editrice Israel, del volume Breve Storia d’Israele di Samuel Dubnow, dalla sua traduzione in italiano alla stampa. Questo compito gli dava la possibilità, mi disse, di dormire su un divano nella sede della casa editrice. Spirito indipendente, non aveva denaro, né posto dove stare: viaggiava di notte per poter dormire in treno, come suggeritogli da Raffaele Cantoni. Ai primi di febbraio del 1942 si iscrisse all’università di Neuchatel, in Svizzera che, mi disse, gli sembrò subito una prigione dalla vita stagnante. Là si mise a disposizione dei servizi segreti inglesi. Dopo un semestre, tornò a Padova presso la sua famiglia, dove fu precettato dai fascisti per il lavoro obbligatorio, con gli altri giovani ebrei della comunità. All’inizio dell’occupazione tedesca, sistemata la famiglia, il 19 settembre del 1943, con 5 amici, si diresse in bicicletta verso il Sud con l’intenzione di raggiungere l’esercito inglese. Attraversare l’Italia era in quel momento ardimentoso e anche un po’ ingenuo, ma rispondeva al suo spirito avventuroso. Ai primi di ottobre riuscì a superare la linea del fronte e a raggiungere Bari. Là, mi disse, sapeva a chi rivolgersi. Non perse tempo e si arruolò nella Royal Navy. Lo imbarcarono su una petroliera che faceva rotta per Malta e ritorno.
La sera di Pesach del 1945 fece un incontro che avrebbe rivoluzionato la sua vita. Al comando militare vide un annuncio che invitava tutti i militari ebrei al seder. Ci andò in divisa inglese. Si trovò seduto vicino al maggiore Shahar. Cominciarono a parlare, saputo del suo lavoro, il commensale cominciò a incalzarlo con domande che lo sorpresero: che mansioni svolgeva? Sapeva l’ebraico? Era stato un ebreo militante? Che cosa sapeva fare?
L’indomani si presentò sulla sua barca un sergente maggiore che lui non conosceva e che con fare ruvido, dopo essersi assicurato che fosse veramente ebreo, gli disse che era palestinese, che era necessario riuscire a trasportare profughi ebrei in Palestina. Così iniziò l’avventura dell’Aliyà Beth di Enrico Levi. “Non ero sionista”, mi ha raccontato, “solo mi piaceva questa sfida da condurre in mare”. “Le condizioni erano impossibili: non c’erano navi da trasporto, il Mediterraneo era infestato dalle mine, gli inglesi sorvegliavano le coste italiane e anche quelle palestinesi. Era una lotta senza senso. Ma per me l’impresa dell’Aliyia Beth era soprattutto una lotta contro il mare.”
“Iniziai ancor prima che arrivassero in Italia Yigal Alon e Ada Sereni, iniziai con il naviglio Dallin, un peschereccio male in arnese. Da niente, l’Aliyà Beth è diventata un fatto enorme, è strano che un’impresa così pericolosa sotto ogni aspetto non abbia lasciato vittime”. Era molto rischioso prendere il mare perché le chiglie stesse delle navi, se metalliche, attiravano le mine e le navi saltavano per aria. Per questo, inizialmente, bisognò armare solo navigli di legno. Lui girava da un cantiere all’altro (il suo impegno nella Navy glie lo permetteva) comprava motori, valutava quanti uomini di equipaggio e personale di macchina occorressero, indicava le rotte, sorvegliava i lavori di ristrutturazione interne alle navi eseguiti dagli uomini della Brigata ebraica.
Accompagnò la Dallin da Monopoli in provincia di Bari, con a bordo 37 persone fino al largo della costa di Cesarea. Fece sbarcare gli emigranti e caricò 8 madrihim destinati all’Aliyà Beth in Europa. Era il 28 agosto 1945, la strada per la Palestina era aperta. Da allora altre 34 traversate furono organizzate, tutte riuscite.
Conclusa l’impresa dell’Aliyà Beth, Enrico, questa volta in volo, andò in Palestina per vedere di fare ancora qualcosa per il Paese. Guidò la nave Kedma, la prima nave passeggeri palestinese (il primo nucleo della futura marina israeliana) che si recava in Europa, con tutti i crismi della legalità, a caricare volontari per la guerra di indipendenza. Enrico era cittadino italiano con libretto di navigazione israeliano. Nel 1951fondò ad Acco la scuola navale che formò i marinai d’Israele. Fu il fondatore dei porti di Eilat e di Ashdod e autore del progetto di museo navale a Haifa. E’ morto a Haifa, lui che ancora si dichiarava non sionista, dopo avere dedicato la sua vita alla causa d’Israele.