1913-1989
Artur Sandauer era un critico letterario, saggista e professore di letteratura all’Università di Varsavia. Coniò il termine “allosemitismo” nel suo saggio “Sulla situazione di uno scrittore polacco di ascendenza ebraica nel 20° secolo” pubblicato nel 1982 e ripreso dal sociologo Zygmunt Bauman in un saggio del 1997. Il concetto di “allosemitisimo” comprende sia l’odio antiebraico, sia il suo contrario, l’amore filoebraico: ambedue intesi a conferire agli ebrei, nella società, uno status speciale.
Conobbi Sandauer nel 1983 a Varsavia. Era la prima apertura verso il mondo occidentale di un Paese al di là della cortina di ferro. Ricorreva il cinquantesimo della rivolta del ghetto di Varsavia iniziata il 19 aprile 1943. Il capo dello Stato polacco Wojciech Jeruzelski decise di offrire a discendenti e studiosi la possibilità di recarsi a Varsavia per le celebrazioni. Nel contesto, fu organizzato un grande convegno internazionale cui partecipai. Mi ricordo perfino di aver parlato alla radio delle grandi possibilità che quell’incontro apriva agli studiosi di tutto il mondo. Varsavia, in pochi giorni, divenne meta di migliaia di ebrei convenuti da tutto il mondo. Si vedevano “straimbels” dovunque, la città formicolava di una popolazione ebraica che, da quella città, 50 anni prima, era stata estirpata. Ci fu un ricevimento ufficiale con ministri, notabili del partito, persone influenti. Tra loro, c’era Artur Sandauer che mi fu presentato come il grande intellettuale polacco vivente. Simpatizzammo in un italiano stentato che volle immediatamente usare con me. Sapeva già 10 lingue e non avrebbe fatto fatica ad imparare anche l’italiano, mi disse. Poi, si offerse di accompagnarmi in albergo. Uscendo nel freddo della città, ci mise mezz’ora a ritrovare la sua macchina, una Wolswagen azzurra, mal in arnese. Gli chiesi perché avesse tardato tanto, mi rispose “perché non trovavo più la macchina”. “Ah, sei distratto” gli dissi, mi guardò e mi disse “no stai usando la parola sbagliata, dovevi dire sei astratto!”. Non so perchè questo piccolo episodio mi è rimasto impresso e, ogni volta che ci penso, mi diverto tantissimo. Il giorno dopo mi portò a visitare una grande artista, la moglie del famoso scenografo e regista polacco, tra i maggiori teorici del teatro del Novecento, Tadeusz Kantor, conosciuto per la sua opera “La classe morta”.
In quei giorni conobbi una persona che mi è tuttora amica e cara, Laura Quercioli, che si trovava a Varsavia per una tesi di dottorato. Con lei girammo per una intera nottata alla ricerca di pannolini da donna, che era una merce rarissima in Polonia, così come le cose che in Occidente trovavi al supermarket, alla portata di tutti. Mi ricordo che l’indomani in albergo chiesi un limone, mandando in crisi il cameriere e uno chef imbarazzato che mi disse che di limoni a Varsavia non ce n’erano proprio. Capii che ero stata io, ingenua a pensare che tutto fosse come in Occidente. Assieme a Laura, decidemmo di non perdere l’occasione, dato che ero in Polonia, di visitare il campo di Auschwitz. Prenotammo un taxi e ci facemmo 300 chilometri ad andare e 300 chilometri a tornare. Notammo che il taxista tendeva le orecchie verso il nostro chiacchiericcio e dopo un paio d’ore smettemmo, ad ogni buon conto, di parlare.
Di ritorno a Milano, dopo un paio di mesi, senza avvertire, Sandauer suonò alla mia porta. Lo accolsi con molta gioia. Mio marito e io lo invitammo a cena. Mi ricordo che si avventò su qualsiasi cosa servissi a tavola. Chiacchierava amabilmente in italiano che, nel frattempo, come si era ripromesso, aveva imparato alla perfezione leggendo Manzoni due o tre volte a fila. Giunti alla frutta, sbucciò la mela che gli offrii, come fa un temperamatite con la matita, la tagliò accuratamente con coltello e forchetta e se la mangiò. Poi finita quella, davanti ai nostri occhi attoniti, mangiò con coltello e forchetta anche la buccia. Di lui non scorderò mai il grande intelletto e il grande spirito.